« Preferisco un fallimento alle mie condizioni che un successo alle condizioni altrui »

(da "Tom Waits, Blues" di C. Chianura)

01 giugno 2013

Fatom (che sicuramente non si scrive così)

Prendo posto tra facce sconosciute, sempre indaffarati malgrado l'attesa e mi chiedo perché. Non dobbiamo che aspettare e sarebbe bello rilassarsi e approfittare della situazione per conoscere qualcuno. Tutti hanno invece qualcosa da fare, da soli o in famiglia e per chi viaggia solo c'è solo da stare lì a guardare, che poi non è poco interessante, anzi, e come sempre ne approfitto. Vicino a me un uomo sulla quarantina, magro, vestito semplicemente, deve essere russo o bulgaro perché parla al telefono e così vicino riesco a sentire tutto quello che dice, inutilmente. Parla piano, calmo e quando finisce cerca il mio sguardo ma io dissimulo l'attenzione e torno a vagare. La solita coppia della serie 'Siamo i più fighi' si spulciano di coccole e ammiccamenti mentre lei lancia occhiate castiganti a chiunque si intrometta. Quelle scarpe da tennis bianche perfette sarebbero state benissimo sotto i miei piedi sporchi. Imbarco e le solite scene di fretta, come se fosse possibile che qualcuno venga lasciato a terra. Altra fila e una ragazza racconta eccitata a una coppia di turisti della sua nuova vita in Germania che inizia 'proprio oggi!' e andrà avanti per sei mesi. Penso a me 7 anni fa. Entro nel discorso, invitata dagli sguardi interrogativi. All'improvviso: 'Ma tu sei già stata a Norimberga?' E' lui che parla, l'uomo del telefono. Rispondo ma taglio corto, perchéperchéperché? Imbarazzo, diffidenza, sorpresa.
Prendo posto vicino alla coppia di turisti e lui subito dietro, mi chiede se può sedersi vicino a me. Dico di sì. Perchéperchéperché? Imbarazzo, educazione, curiosità. E così dal niente, mi trovo acconto un pezzo di umanità incarnata in Fatom, kosovaro di Pristina, classe 1975, manovale, bravo! dice lui. Mi racconta dei suoi 13 anni in Italia, da solo e poi con pezzi di famiglia che si ricompongono come un patchwork. Parla bene l'italiano, calmo e presente a se stesso. Si trasferisce a Norimberga 'ma non per me, che da manovale ce n'ho di lavoro, lo faccio per i miei quattro figli. In Germania pare che ce ne sia di lavoro e il più grande tra poco finisce la scuola.' Apro la mano come una pagina e cerco di disegnare i confini delle ex repubbliche slave ma sbaglio e con due dita mi corregge. Sorride, sincero e trasparente come lo smalto dei denti perfettamente puliti. Uscito dal dentista e imbarcato? Mi chiede di me ma io sono meno genorosa. Perchéperchéperché? Imbarazzo, paura, salvaguardia. Va avanti lui e mi racconta che già suo padre aveva cercato fortuna in Germania con un amico che però ci è rimasto là mentre suo padre tornava a casa e metteva al mondo i suoi figli non immaginando che poi uno di loro, il più grande avrebbe fatto lo stesso viaggio e per farlo avrebbe avuto bisogno proprio del suo vecchio amico. 'Che quando l'ho chiamato, si è fatto in quattro e mi ha trovato un lavoro e un posto dove stare e mi aiuterà per tutto il tempo che avrò bisogno. Ormai lui lo parla il tedesco e conosce tutto. Io invece no e quando mi prende la nostalgia, vado a cercare un ristorante italiano e mi metto a parlare con la gente.' Penso a lui, piccolo come me e penso che facevamo gli stessi giochi per strada, coi gessetti e i tappi delle bottiglie. Poi penso a me indecisa su quale università frequentare, ai primi anni di smarrimento nella giungla studentesca e penso a lui tra bombe e cecchini, costretto a emigrare in Slovenia e rimpatriare solo dopo la fine della guerra e facendo anche un giro largo in Macedonia per non attraversare la Bosnia. Gli chiedo: 'Cosa volevi fare da piccolo?', 'Il poliziotto...ma di quelli buoni!' e ride così bene che tutto splende, siamo sopra le nuvole. Poi non c'è stato più da scegliere ma solo da pensare a come sopravvivere e da qui il viaggio verso l'Italia. Non gli chiedo come ci è arrivato in provincia di Lucca ma guardo la magrezza delle sue gambe, il biancore delle unghie e le piccole macchioline rosse che orlano i suoi occhi. Mi sembra di conoscerlo. 'Se vieni a Norimberga con tuo marito, vi offro un caffè'. Dico sì ma non gli chiedo né il numero né altri contatti. Perchéperchéperché? Imbarazzo, rispetto, incredulità. Mi racconta tanto ancora, delle sue avventure di viaggio, di quanto ha pagato il biglietto perché si è dimenticato di stampare la carta d'imbarco, dell'impresa di pulizie presso cui lavorerà e il tempo vola dritto e veloce come una freccia accanto a noi. Stiamo atterrando e mi rendo conto che non so nemmeno come si chiama. 'Elisa, io mi chiamo Elisa', 'E io sono Fatom, un po' difficile ma però vuol dire Fortunato' e ride. Ridiamo ancora, ridiamo complici degli ultimissimi minuti a due passi dal cielo.