« Preferisco un fallimento alle mie condizioni che un successo alle condizioni altrui »

(da "Tom Waits, Blues" di C. Chianura)

17 febbraio 2009

...continua....


Ho ricevuto un bel commento via mail che mi ha illuminato sulla questione 'nudità' e credo di aver capito meglio il loro punto di vista. Sempre la stessa preziosa persona, Donnamaria, mi ha scritto una frase che mi sento di dover sviscerare oltre:
"C'e' sempre una linea molto fine tra tollerare gli immigrati ed aspettarsi che la gente locali cambi le proprie tradizioni e costumi per accomodare quelle degli stranieri."
Come straniera in terra straniera circondata da amici cari nella stessa condizione, sono colta nel vivo.
Io non ho nessuna intenzione di cambiare le usanze tedesche perché in cuor mio non vedo il costume come uno stravolgimento di queste usanze. Ma secondo altri ragionamenti (che Donnamaria mi ha fatto presenti) probabilmente lo è e qui arrivano i dolori. Perché qui si INcontra la mia cultura e quella di chi mi ospita. Come posso sapere io su cosa è possibile transigere e mi si può quindi permettere e su cosa no? Come faccio io, italiana, a sapere cosa per un tedesco è 'così e basta!'. Non posso saperlo e allora mi presento, ingenuamente in una sauna pubblica col mio costumino e cacciata, ci rimango male. Io rinuncio al mio diritto di cittadino di usufruire della sauna pubblica (che pago con le mie tasse cittadine) perché lì non sono accettata dotata di costume. Io lascio perdere ma si potrebbero manifestare situazioni più gravi come, per fare un esempio, questa: sono un'estetista e voglio lavorare, ovviamente, in un istituto di bellezza ma qui non mi prendono in considerazione perché indosso il chador, il velo musulmano. Mi si priva di un lavoro per motivi religiosi. Insomma: per poter vivere in un paese io ne assorbo volentieri la lingua e anche la cultura finché questa non collima con la mia. Posso diventare indù perché vivo in India o nutrirmi di meduse perché sto in Giappone o giocare a Okay in Alaska?? Sono esempi banali e sbrigativi ma li metto tanto per essere chiara. Trovo immaturo e irrispettoso non voler imparare la lingua del posto dove si vive (o almeno provarci secondo le proprie possibilità) o pensare di poter avere una legislazione a parte e questo è ovvio per me. (Anche se esistono comunità del tutto separate e non integrate in ogni parte del mondo. Una per tutti gli Amish). Concentro invece la mia attenzione in tutti quei casi in cui il confine è appunto sottile e per i quali un paese ospite deve tener conto della violenza che può compiere imponendo i propri usi e costumi.
In altre parole "In Rome do as the Romans do!" sarebbe bello, ed è giusto come atteggiamento predisposponente all'integrazione, ma non tiene di conto che questo non sempre è realizzabile senza farsi o praticare violenza fisica e/o psicologica.


4 commenti:

Anonimo ha detto...

"We don't see things as they are, we see things as WE ARE". (Anais Nin)
Parole sante!
Donna Maria :)

AndreA ha detto...

L'ospite in genere vede sempre delle cose differenti da quelle abituali.

L'ospitante deve essere accogliente, ma non può stravolgere i suoi usi, in virtù dell'ospite.

Un abbraccio.

Elisen ha detto...

ci tengo a sottolineare che io dico questo non solo da emigrante ma anche da italiana che ospita flotte di immigrati..
ci tengo a sapere come la vedono gli altri questa spinosa questione..

Chuck ha detto...

Credo infatti che una integrazione vera e propria sia possibile solo dalla seconda generazione in poi. I bambini figli di immigrati, nati e cresciuti nella nuova patria, sono (dovrebbero essere) la fusione perfetta delle due culture. I loro genitori saranno sempre stranieri in terra straniera.

Ovviamente perché ciò sia possibile serve una scuola pubblica all'altezza.